Io, l'erede
3 atti di
Eduardo De Filippo
una commedia graffiante,
per molti aspetti eversiva
regia di
Rosa Startari
Qual è, di cosa è fatta, l'eredità che ognuno
si porta dietro? E noi, possiamo scegliere
di chi essere eredi e di chi no?
“La mia strada non passa vicino alla tua casa / La mia strada non passa vicino alla casa di nessuno / E tuttavia io smarrisco il cammino” (Marina Cvetaeva).
Il punto blu di Io, l’erede
Luca De Filippo ebbe a dire che Io, l’erede è una commedia “scomoda nel suo non concedere e nell’analisi spietata dei nostri sentimenti e dell’ipocrisia che a volte si cela dietro la facciata del perbenismo e della solidarietà sociale”.
Siamo partiti da qui e poi, da una specie di centro profondo del testo eduardiano arrivava l’eco di altre domande. Abbiamo nel cervello un nucleo molto antico, solitario, nascosto, piccolo e resistente. Serve ad accendere l’attenzione, eccita l’intero sistema nervoso, mobilita le energie cerebrali. Lo chiamano punto blu, per il suo colore azzurrino.
Eccolo il punto blu di Io, l’erede. Qual è, di cosa è fatta, l’eredità che ognuno si porta dietro? E se ci accorgessimo che la nostra eredità non ci sta “dietro” ma davanti, e ci traccia la strada? Di chi siamo eredi? Possiamo scegliere di chi esserlo e di chi no? Il vecchio Matteo Selciano lascia alla sua famiglia benessere e ricchezza materiale. Ma - senza averlo premeditato - lascia pure: la pratica della beneficienza esercitata sistematicamente (una sorta di polizza assicurativa per la vita e per la morte); i “beneficati” installati in casa sua, Prospero e Bice; il suo infedele amministratore di famiglia. Il vecchio Prospero Ribera tiene un diario, in cui scrive i segreti dei componenti della famiglia Selciano: lo scrive per sé, forse non ricorda neanche più d’aver avuto un figlio, non ne ha mai parlato, eppure anche quel diario, per una “felice” coincidenza, si trasformerà nel lascito di un “patrimonio affettivo e sentimentale” che farà di Ludovico l’erede.
I padri defunti non sono, sol per questo, assenti: sulla scena, gli eredi perpetuano, consapevolmente o meno, le situazioni del passato, occupano ciascuno il proprio posto, quello che è stato loro assegnato (come a tavola nella scena del pranzo). Sono cioè la “conseguenza” di ciò che i morti hanno fatto per loro, “vivi apparenti, più morti dei morti stessi“ perché non possono più scegliere, non possono più inventarsi una forma nuova in cui abitare (A.Barsotti).
Gli eredi-figli vivono dunque come incatenati ai padri: chi tenta di “scatenarsi” (rompere le catene), come Adele, si smarrisce. Solo Bice, orfana anche lei, ma non di padre, è la sola che potrà scegliere la propria strada: ma dovrà sopportare l’espulsione dal gruppo, affrontare il pericolo, forse la povertà.
Troppo ambizioso sarebbe voler tracciare l’interferenza di Io, l’erede con altri lavori del Maestro napoletano e con la sua stessa biografia. Possiamo solo timidissimamente accennare alla riscrittura eduardiana de La Tempesta, dove è Prospero (e non Miranda) a ricordare di essere stato maestro di Calibano e di aver tentato, in una visione tutta occidentale di supremazia, di elevare la natura ferina dell’indigeno: «Io te nzignaije a parlare… / ogne ora, ogne momento / cercavo de nfilarte / caccosa int’a la mente. / Spalancave la vocca / cumm’a lupemannàro, / strillave / ca scappavano li pisce da lu mare. / Ire animale / e tale si’ rimasto, / è la tua discendenza: / canusce sulo ‘o mmale. / chi lava ‘a capa all’aseno, / ricordatèllo buono: / nun solo perde l’acqua, / ma pure lu ssapone».
E ancora l’idea regalata agli studenti della Sapienza, per L’erede di Shylock, una pièce teatrale incentrata sulla figura di un immaginario discendente dell’ebreo veneziano che decide, trecento anni dopo la storia raccontata da Shakespeare, di riaprire il processo del suo avo.
Eduardo è stato molte volte erede: della maschera di Pulcinella, del teatro di Antonio Petito, del teatro ma non della ricchezza materiale del padre naturale Eduardo Scarpetta, di Raffaele Viviani. Dello stesso Shakespeare e di Molière. E di questa eredità ha saputo spogliarsi e poi rivestirsi. “Io m’aggio dovuto spoglià, io mi sono dovuto spogliare da cima a fondo. Quando un attore ha recitato per anni e anni un genere [...] se vuole finalmente ritrovare sé stesso sotto i vestiti degli altri sapite ch’ha da fa? S’ha da mettere nudo [...] e così ricominciare a rivestirsi a poco a poco coi panni nostri”.
Io, l’erede porta nel titolo il pronome personale con cui tutti ci chiamiamo: non siamo noi i creatori del nostro destino, non del tutto almeno, non fino a quando non avremo fatto i conti con la nostra eredità, quella che abbiamo ricevuto e quella che lasceremo.